giovedì 13 dicembre 2012

Someday (o le notti in cui si salva la vita)

Dicembre 2002. I giorni passavano ruvidi di preoccupazioni. Disegnavo la paura all'ospedale di S. João e l'incapacità di togliere il dolore all'ordine di S. Francisco. Mi ridevo stupidamente dalla sofferenza di chi non soffriva lo stesso, il che alla fine ha spaventato i colleghi, gli amici e gli insegnanti che hanno capito solo qualche giorno prima. C'era un cuore senza spazio per se che doveva essere riparato. Un cuore che mi era molto vicino, e io tremavo molto. Ognuno ha cercato di prepararmi per accettare il non sapere cosa sarebbe successo: dottori, insegnanti e famiglia hanno spiegato il punto dell'incertezza. La chirurgia era un grosso rischio, la non chirurgia sarebbe la fine prematura. Quella sera, per la prima volta, mia madre mi ha chiesto di non rimanere a casa.

L'avevo chiamata poco prima, la mia Carota - aveva i capelli rossi e mi dava un sacco di energia - si è messa sulla strada ed è venuta a trovarmi a Porto. Ci siamo infiltrate a casa della nostra eterna Animatrice, che abitava in una república di via Miguel Bombarda (il centro artistico della città), di fronte ad un caffè spiritoso. Quella notte loro mi hanno salvato la vita, e pure il cuore per cui tremavo è stato salvato.

Non so mai con certezza l'ordine dei fattori e la Carota mi ha fatto ricordare alcuni episodi, ma penso che all'inizio ci fosse stata l'invasione delle altre stanze della república. Abbiamo iniziato quasi di sicuro per parlare tanto ed incessantemente, fino ad avere meno fame di parole e diventare più affamate di cibo. Poi siamo uscite e andammo al rettorato. Li c'era la mensa universitaria, in cui in generale si mangiava a basso costo, a condizione di cenare presto... Ma la mensa era occupata. Si celebrava il natale fra genitori e figli, con i quali ci siamo messe a chiacchierare, e pian pianino avendo la cena. Non abbiamo pagato un solo centesimo e da lì andammo all'altro gol: la festa flower power degli studenti di architettura dell'università di Porto.

L'Animatrice era studentessa di architettura, ma altrove; la Carota sarebbe stata nel primo anno di sociologia, se non sbaglio i conti; e io a metà della superiore. Beh, mettiamo in scena: un fiore qua e là, nei capelli e nei vestiti, ed entriamo a ballare. "Se ci chiedono, diciamo di sì!", ed abbiamo sempre detto di sì, eravamo senza dubbi le studentesse di architettura. The Strokes erano sintonizzati e ci hanno permesso saltare tanto, prima ancora che i salti fossero indotti. Era una festa universitaria con un po' di alcool disponibile, qualcuno ce l'ha offerto e l'altro lo abbiamo pagato col risparmio della cena. La nostra innocenza con tutti quei grandi era meravigliosa, e ci siamo messe a ridere proprio tantissimo quando alla domanda "Ce l'hai il tabacco?" si è risposto "E ce l'ho anche il polmone!"

Abbiamo lasciato il posto cosi sudate come se fosse una sera d'estate, ed avevamo ancora l'energia. Poi seguimmo per la Ribeira, dove qualche posto sarebbe ancora aperto di sicuro. Ridevamo tanto e parlavamo a voce alta, cercando di passare l'euforia ai residenti o passanti. Siamo andate in un bar karaoke dove mi sono sintonizzata nella cuba libre e lei mi ha messa a cantare una, e un'altra, e poi un'altra, fino a fare un duetto col rasta residente, se non sbaglio cantammo Bob Marley, No woman, no cry. Eravamo noi e solo noi a cantare, lui alla fine è venuto sul nostro tavolo e noi-ragazze ci accorgiamo che i nostri corpi avevano bisogno di un'altro riposo. Camminando verso via Miguel Bombarda, l'unico motivo per cui non abbiamo visto l'alba era perché si stava vicino al giorno più corto dell'anno, e pioveva.

La pioggia mi lavava pian pianino la cuba libre e l'altro che avrei bevuto per saltare tutta quella sera. Non riuscivo più a dire una parola, per fortuna le ragazze erano stanche e sono andate a dormire. La mattina dopo abbiamo lasciato l'Animatrice in sleep mode, la Carota è tornata a Lisbona in trasporto pubblico e io sono andata in ospedale. Stava tutto bene, sono entrata e svenuta. Due volte, ma almeno mi svegliavo sentendo Bob Marley e rispondendo a "Qual'è il tuo nome, Ana?" con "Inês".In quella sezione dell'ospedale, nelle cure intensive, devo aver sentito le parole sbagliate, confusa che ero nelle mie idee. Ero sul lato più appuntito, il lato più sensibile, il lato del cuore salvato.

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