venerdì 7 dicembre 2012

Non parlare male dei gatti


Si sente molto parlare dei gatti, il loro spirito indipendente, il loro temperamento variabile, l'umanità che in loro proiettiamo. Il fatto che sfuggono teneramente e fastidiosamente dal nostro controllo li rende degni di un'infinità di storie.

Nel mio baule ci sono molte storie ascoltate con i gatti come protagonisti. Gatti che occupano le case, gatti che criticano fallimenti musicali, gatti che si danno alla morte lontani dei padroni, anche quelli che scelgono la morte con la morte dei padroni. I gatti che chiedono di aprire i rubinetti per bere l'acqua fresca, i gatti che si aggirano tra le borse, libri e bagagliai di macchine, gatti-amuleto, gatti randagi che portano gli amici al cantiere. C'è una moltitudine di storie possibili, ma la storia che ora racconto è una delle più antiche che conosco.

Retrocediamo, a Porto, alla decade del 1940. L'area di Largo Mompilher all'epoca probabilmente era tanto scura come lo è oggi, ma senza dubbio molto più popolata. Nel 2008 c'erano ancora, solo nel quartiere di Cedofeita, 180 ilhas attive. Non so se si possa immaginare quante furono sette decadi prima. Una ilha, per chi non ha familiarità col termine, è una sorta di (parafrasando la nonna) "condominio chiuso". Un cancello (o anche un'entrata all'aperto) dà accesso a una sorta di corridoio, con un susseguirsi di porte (e, dietro a ciascuna, in media due stanze: cucina compresa) e alla fine un bagno condiviso dai "condomini". È doveroso aggiungere che dietro ogni porta viveva una famiglia, di solito composta da una madre, un padre e diversi bambini.

In una delle numerose isole vicine a Largo Mompilher viveva la famiglia da cui proviene questa storia. Fra loro eccelleva, tra le altre, la capacità di moltiplicarsi: un letto singolo si adattava a tre figlie di più o meno la stessa età, in un altro un ragazzino più sfuggente e il piccolo rimaneva vicino ai genitori. 

Alcuni principi di manutenzione di tale condizione di vita passavano da generazione a generazione. Si distingua la cura, sopratutto nella cucina-salotto, ma anche la capacità di inventare soluzioni col poco che si aveva in mano. Un po' di farina, un secchio d'acqua, un pezzo di merluzzo e del prezzemolo farebbe una festa di pataniscas. L'olio in cui erano fritte saziava più velocemente, qualità necessaria in quei giorni. I bimbi lavoravano, cosi come i genitori, il che non si traduceva necessariamente nella quantità di escudos sufficienti per mettere del cibo in tavola.

In un giorno di disperazione, il gatto apparve. Passeggiava lungo il suo spazio condominiale, fermandosi dove lo ricevessero gentilmente (e quale gatto rifiuterebbe un piattino di lische?) rimanendo lì tutto il giorno. Si fermò nel giorno sbagliato per essere coccolato dagli umani. Si rannicchiò nel grembo della madre, che piangeva. Cadevano lacrime dopo sospiri dopo angosce e niente la consolava. La madre accarezzava la pelliccia del gatto, evitando a tutti i costi fargli del male. Non sarebbe stata la prima persona a far passare un gatto per un coniglio, ma non ne era capace. Nemmeno i suoi figli meriterebbero di non aver niente da mangiare. Rimase a piangere e il gatto uscì.

Tornò poco dopo. In bocca, fermo e sospeso come se fosse suo figlio, portava un nasello fresco e intatto appena strappato al pescivendolo. Lo lasciò sul balcone della cucina e uscì.

Non parlare male dei gatti, per favore.

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