sabato 22 dicembre 2012

Previsioni

Nella prossima vita sarò stronza (al 100%) e molto felice. Suonerò l'arpa e avrò un sacco di figli, ma comunque sarò molto elegante e tutto quello che si aspetta per bene. Avrò pure un piacevole senso dell'umorismo, sapendo sempre cosa dire, quando e come dirlo. E sarò molto colta, ovviamente, non nel modo finto e superficiale di chi si stanca ogni tot anni di vita. Ci saranno altri attributi, di sicuro, ma non ho pazienza per tutto.



Comunque, la mia prossima vita non sarà di sicuro nel 2013. Quello sarà appena un anno in cui mi godo quel che riesco, lavoro per bene sul dottorato, accompagno qualche amico qua vicino e faccio la brava da lontano. Sarà l'anno in cui incrocio le dita per tutti quelli a cui voglio bene, desiderando con tutta la forza che 2013 sia l'anno dei loro sogni - e qui sono una brava, che questa è l'unica richiesta alle stelle che passa di anno in anno da che mi ricordo di esistere. Sì, chiedo delle cose alle stelle, come faceva Pinocchio. Sono piacevolmente ridicola in questo aspetto e una volta un ragazzo si è innamorato di me quando l'ho raccontato delle storie sulle stelle, quindi ne è valsa la pena. Giuro che continuo stupidina nel 2013, sognando più di quanto riesco a dire e provando ad imparare più ricette di biscotti. Nel frattempo guardo i musical che passano in tv mentre mangio la torta al cioccolato.

Quel stupido senso di provar a pensare sul futuro (stupido di per se) mentre guardo i film di decenni fa. "I got daisies..." 

(Bacione, carissima atmosfera. Buon 2013)  

martedì 18 dicembre 2012

Venerdì tredici

Un giorno della settimana, come gli altri. Un giorno per il lavoro, il shopping, le vacanze, le feste e i funerali: il venerdì tredici si adatta a tutti. Facciamo un avvertimento per i gatti neri, di quel nero affascinante, coloro che soffrono di più in questi giorni mistificati. Giorni in cui li aggiungiamo lo spirito (ai giorni, che i gatti lo hanno a risparmiare).

Ma oggi è un venerdì tredici speciale. Perché qualche anno fa, in un venerdì tredici del 1954, Frida Kahlo è morta. In quella stessa giornata benedetta dal genio della forza, tra i colori forti, mio padre è nato. 

In una casa piccolina delle vie di Porto, la nonna lo ha partorito. Lo avrà avuto tra le lenzuola bianche, in una giornata calda e con i sorrisi di nuovo bambino nei volti dei cinque fratelli. Lo avrà poi creato nella forza delle sue braccia e nell'amore dei suoi gesti, nutrendolo di meraviglie cotte a fuoco lento in una pentola di ferro.

Ha compiuto tredici anni in un venerdì tredici, giorno in cui ha battuto la testa su un angolo mentre portava dei messaggi tra gli hotel di Porto (era il suo lavoro in quel tempo). Dopo di che si è dato a un sacco di altre cose. Soprattutto alle passione ed ai fascini. Ha una sostanza musicale e il viaggio scorre anche nelle sue vene.

Sentiva la necessità di aumentare l'anima con delle risate da tirare la lacrima, e sappiamo che di tanto in tanto i segnali stradali di Porto cambiavano all'improvviso e qualcuno era delirante di gioia mentre guardava le espressioni dei passanti attoniti, e lui seduto in un caffè all'alba. Altri giorni accompagnava i tifosi di Salgueiros ai giochi fuori, ma in generale quei disgraziati dovevano giocare mentre tutti i tifosi discutevano le previsioni e ridevano nella bottega accanto.

L'anima cresce pure nella lotta e nell'amore, e in tutte e due ha condotto una vita molto grande. E io sono semplicemente una studentessa un po' disattenta con tanto da imparare, e le parole sfuggono. E pure le parole sono venute in gran parte da lui, quando mi insegnava le canzoni di Zeca Afonso, che riescono ancora a dare un senso ai giorni che ne sono privi. Mi ha pure insegnato l'armonia, facendoci cantare a due voci. Ha insegnato l'importanza di alcuna follia e di affrontare il difficile con forza nel cuore, umorismo in testa e un sorriso negli occhi.

Tra molte altre cose. Va al di là della portata dei comuni mortali sperimentare i limiti dell'umanità, girare il mondo e sognalo di nuovo, togliere la camicia per chi si conosce a malapena e nutrire gli amici dell'anima con i migliori pani e vini. 

Uno prende la vita con mano ferma e non dimentica mai che ci sono sempre più righe da scrivere. Una moltitudine di parole, proprio fino all'infinito, si fa la curva e si continua. Che c'è già tanta gente che vuole scrivere in poche righe, e forse per quello il mondo non si rovesci.

giovedì 13 dicembre 2012

Someday (o le notti in cui si salva la vita)

Dicembre 2002. I giorni passavano ruvidi di preoccupazioni. Disegnavo la paura all'ospedale di S. João e l'incapacità di togliere il dolore all'ordine di S. Francisco. Mi ridevo stupidamente dalla sofferenza di chi non soffriva lo stesso, il che alla fine ha spaventato i colleghi, gli amici e gli insegnanti che hanno capito solo qualche giorno prima. C'era un cuore senza spazio per se che doveva essere riparato. Un cuore che mi era molto vicino, e io tremavo molto. Ognuno ha cercato di prepararmi per accettare il non sapere cosa sarebbe successo: dottori, insegnanti e famiglia hanno spiegato il punto dell'incertezza. La chirurgia era un grosso rischio, la non chirurgia sarebbe la fine prematura. Quella sera, per la prima volta, mia madre mi ha chiesto di non rimanere a casa.

L'avevo chiamata poco prima, la mia Carota - aveva i capelli rossi e mi dava un sacco di energia - si è messa sulla strada ed è venuta a trovarmi a Porto. Ci siamo infiltrate a casa della nostra eterna Animatrice, che abitava in una república di via Miguel Bombarda (il centro artistico della città), di fronte ad un caffè spiritoso. Quella notte loro mi hanno salvato la vita, e pure il cuore per cui tremavo è stato salvato.

Non so mai con certezza l'ordine dei fattori e la Carota mi ha fatto ricordare alcuni episodi, ma penso che all'inizio ci fosse stata l'invasione delle altre stanze della república. Abbiamo iniziato quasi di sicuro per parlare tanto ed incessantemente, fino ad avere meno fame di parole e diventare più affamate di cibo. Poi siamo uscite e andammo al rettorato. Li c'era la mensa universitaria, in cui in generale si mangiava a basso costo, a condizione di cenare presto... Ma la mensa era occupata. Si celebrava il natale fra genitori e figli, con i quali ci siamo messe a chiacchierare, e pian pianino avendo la cena. Non abbiamo pagato un solo centesimo e da lì andammo all'altro gol: la festa flower power degli studenti di architettura dell'università di Porto.

L'Animatrice era studentessa di architettura, ma altrove; la Carota sarebbe stata nel primo anno di sociologia, se non sbaglio i conti; e io a metà della superiore. Beh, mettiamo in scena: un fiore qua e là, nei capelli e nei vestiti, ed entriamo a ballare. "Se ci chiedono, diciamo di sì!", ed abbiamo sempre detto di sì, eravamo senza dubbi le studentesse di architettura. The Strokes erano sintonizzati e ci hanno permesso saltare tanto, prima ancora che i salti fossero indotti. Era una festa universitaria con un po' di alcool disponibile, qualcuno ce l'ha offerto e l'altro lo abbiamo pagato col risparmio della cena. La nostra innocenza con tutti quei grandi era meravigliosa, e ci siamo messe a ridere proprio tantissimo quando alla domanda "Ce l'hai il tabacco?" si è risposto "E ce l'ho anche il polmone!"

Abbiamo lasciato il posto cosi sudate come se fosse una sera d'estate, ed avevamo ancora l'energia. Poi seguimmo per la Ribeira, dove qualche posto sarebbe ancora aperto di sicuro. Ridevamo tanto e parlavamo a voce alta, cercando di passare l'euforia ai residenti o passanti. Siamo andate in un bar karaoke dove mi sono sintonizzata nella cuba libre e lei mi ha messa a cantare una, e un'altra, e poi un'altra, fino a fare un duetto col rasta residente, se non sbaglio cantammo Bob Marley, No woman, no cry. Eravamo noi e solo noi a cantare, lui alla fine è venuto sul nostro tavolo e noi-ragazze ci accorgiamo che i nostri corpi avevano bisogno di un'altro riposo. Camminando verso via Miguel Bombarda, l'unico motivo per cui non abbiamo visto l'alba era perché si stava vicino al giorno più corto dell'anno, e pioveva.

La pioggia mi lavava pian pianino la cuba libre e l'altro che avrei bevuto per saltare tutta quella sera. Non riuscivo più a dire una parola, per fortuna le ragazze erano stanche e sono andate a dormire. La mattina dopo abbiamo lasciato l'Animatrice in sleep mode, la Carota è tornata a Lisbona in trasporto pubblico e io sono andata in ospedale. Stava tutto bene, sono entrata e svenuta. Due volte, ma almeno mi svegliavo sentendo Bob Marley e rispondendo a "Qual'è il tuo nome, Ana?" con "Inês".In quella sezione dell'ospedale, nelle cure intensive, devo aver sentito le parole sbagliate, confusa che ero nelle mie idee. Ero sul lato più appuntito, il lato più sensibile, il lato del cuore salvato.

martedì 11 dicembre 2012

Imparare l'inferno sulla punta della lingua


Non siamo tutti nati col sangue comico. Questo non vuol dire che non siamo attratti dalla commedia quotidiana o sporadica, solo che questo non viene bene con le parole. Penso in particolare in quella commedia più lasciva. Ci sono delle persone particolarmente dotate per questo, con cui le parole infernali suonano a pane con marmellata e pepe, a cioccolato col peperoncino. Hanno già cercato di insegnarmi a farlo.

È un po' triste venire da Porto e non essere in grado di pronunciare correttamente "Andate, andate con la Madonna dello Stupore figli miei, andatevene al diavolo!", una frase che tanto ci fa ridere nei pranzi di domenica. O quando parlo con un caro amico del cuore, chiedo se mi vuol ancora bene e ho diritto a cinque minuti di buona verbosità, finita con "mi piaci più di quasi chiunque altro al mondo, cazzo!" e non sapere mai la risposta giusta.

Pepe sulla punta della lingua, una delle lezioni abituali della mia generazione. Credo di aver sperimentato solo una volta, a scuola, dopo qualche parola altisonante. A casa mi hanno insegnato a non essere povera di spirito attraverso la lingua, ma confesso che sento una ricchezza enorme in chi sa davvero parlare male!

C'è una casa vuota alla quale sorrido ogni volta che faccio il viaggio tra Lisbona e Porto col treno. Si tratta di una casa con un sacco di ricordi e di saudade. Lì ho avuto la mia prima insegnante di lingua dall'inferno.

- Ecco, i tuoi genitori se ne sono andati. Ora dimmi tutte le parolacce che hai già imparato.
Diventavo terribilmente imbarazzata e non riuscivo a parlare.

- Se non me le dici, non ti faccio la torta all'ananas.
Questo era un punto particolarmente dolente. La torta all'ananas col caramello era divina. Era un pezzo di paradiso nell'inferno che mi chiedeva. Si dovrebbe risarcire il danno.

- E se lo dico, mi fai la torta all'ananas, le patatine e l'uovo fritto?
- Dimmele prima, per vedere se te le meriti!

E io le dicevo, incominciavo pian pianino e aumentavo il tono in linea con le sue risate ampie, che occupavano tutta la casa e chiamavano gli animali. Era un piacere: cani, gatti, parolacce, risate, dolci e fritti, tra le altre cose buone. Un paradiso per una bambina irregimentata alla regola.

- Guarda, tu non hai una vita per questo, figliola. Studi molto, vai alla messa, fai la musica e non sciocchi mai. Una persona deve dire e fare delle cazzate per mantenersi in salute – mi avrebbe detto pochi anni dopo. E metteva la radio accesa a volume alto, ridendo del grido immediato di un vicino di casa e mi serviva un'altra fetta di torta all'ananas.

Non ho avuto tempo per raccontarle cos'ho imparato dell'inferno. Ho "infernizzato" particolarmente nell'anno della sua morte. Credo che sarebbe orgogliosa se mi avesse visto sul palco vestita da sivigliana, sollevando la gonna a simulare la minzione, combattendo con una forcina, fumando senza scrupoli e dicendo che, in quella situazione, una donna "prende il toro per le corna, tira le ovaie e manda tutto a fanculo!" 1


1  Antonio Onetti (2003) A Rua do Inferno, Livrinhos de Teatro.

venerdì 7 dicembre 2012

Non parlare male dei gatti


Si sente molto parlare dei gatti, il loro spirito indipendente, il loro temperamento variabile, l'umanità che in loro proiettiamo. Il fatto che sfuggono teneramente e fastidiosamente dal nostro controllo li rende degni di un'infinità di storie.

Nel mio baule ci sono molte storie ascoltate con i gatti come protagonisti. Gatti che occupano le case, gatti che criticano fallimenti musicali, gatti che si danno alla morte lontani dei padroni, anche quelli che scelgono la morte con la morte dei padroni. I gatti che chiedono di aprire i rubinetti per bere l'acqua fresca, i gatti che si aggirano tra le borse, libri e bagagliai di macchine, gatti-amuleto, gatti randagi che portano gli amici al cantiere. C'è una moltitudine di storie possibili, ma la storia che ora racconto è una delle più antiche che conosco.

Retrocediamo, a Porto, alla decade del 1940. L'area di Largo Mompilher all'epoca probabilmente era tanto scura come lo è oggi, ma senza dubbio molto più popolata. Nel 2008 c'erano ancora, solo nel quartiere di Cedofeita, 180 ilhas attive. Non so se si possa immaginare quante furono sette decadi prima. Una ilha, per chi non ha familiarità col termine, è una sorta di (parafrasando la nonna) "condominio chiuso". Un cancello (o anche un'entrata all'aperto) dà accesso a una sorta di corridoio, con un susseguirsi di porte (e, dietro a ciascuna, in media due stanze: cucina compresa) e alla fine un bagno condiviso dai "condomini". È doveroso aggiungere che dietro ogni porta viveva una famiglia, di solito composta da una madre, un padre e diversi bambini.

In una delle numerose isole vicine a Largo Mompilher viveva la famiglia da cui proviene questa storia. Fra loro eccelleva, tra le altre, la capacità di moltiplicarsi: un letto singolo si adattava a tre figlie di più o meno la stessa età, in un altro un ragazzino più sfuggente e il piccolo rimaneva vicino ai genitori. 

Alcuni principi di manutenzione di tale condizione di vita passavano da generazione a generazione. Si distingua la cura, sopratutto nella cucina-salotto, ma anche la capacità di inventare soluzioni col poco che si aveva in mano. Un po' di farina, un secchio d'acqua, un pezzo di merluzzo e del prezzemolo farebbe una festa di pataniscas. L'olio in cui erano fritte saziava più velocemente, qualità necessaria in quei giorni. I bimbi lavoravano, cosi come i genitori, il che non si traduceva necessariamente nella quantità di escudos sufficienti per mettere del cibo in tavola.

In un giorno di disperazione, il gatto apparve. Passeggiava lungo il suo spazio condominiale, fermandosi dove lo ricevessero gentilmente (e quale gatto rifiuterebbe un piattino di lische?) rimanendo lì tutto il giorno. Si fermò nel giorno sbagliato per essere coccolato dagli umani. Si rannicchiò nel grembo della madre, che piangeva. Cadevano lacrime dopo sospiri dopo angosce e niente la consolava. La madre accarezzava la pelliccia del gatto, evitando a tutti i costi fargli del male. Non sarebbe stata la prima persona a far passare un gatto per un coniglio, ma non ne era capace. Nemmeno i suoi figli meriterebbero di non aver niente da mangiare. Rimase a piangere e il gatto uscì.

Tornò poco dopo. In bocca, fermo e sospeso come se fosse suo figlio, portava un nasello fresco e intatto appena strappato al pescivendolo. Lo lasciò sul balcone della cucina e uscì.

Non parlare male dei gatti, per favore.

giovedì 6 dicembre 2012

Storie piccoline a Pilastro


C'era un pochino di fiume nei suoi occhi. Un torbido fiume, spesso frenetico, più forte che il suo piccolo corpo di quattro anni. Tutti i suoi compagni di classe avevano la stessa età, ma nessun'altro viveva con tale fiume tortuoso negli occhi. Filippo era in grado di fare tutti gli esercizi possibili ed immaginari, rispondeva con astuzia agli educatori e insegnava ai colleghi quello che potevano non aver ancora imparato. Poi si chiudeva col suo fiume per tempi variabili, a volte pochi minuti altre volte tutta la mattina, e tutto in lui diventava aggressivo e tortuoso.

Un giorno mi avvicinò con un foglio e penne coloranti, chiedendo di sedersi al mio fianco. Disegnando mi guardava (mi osservava già da circa un mese). Verde e marrone, poi un po' di blu.
- Ti posso raccontare una storia?
- Sono tutta orecchi.
- Questo è mio padre che pesca. Ci piaceva molto, a mio fratello e a me, andare a pesca con lui. Da due mesi non lo facciamo più. Mio padre si è suicidato, e mi manca. Ecco perchè disegno le cose che mi piaceva fare con lui.

Continua concentrato nel suo compito, in silenzio. Poco dopo, vedendo che Dhael non riesce a scegliere le penne per il suo disegno, si alza e va ad aiutarla.
- Cosa vuoi disegnare?
- Il mio sogno! – risponde la zingarellina degli occhi neri, dai capelli neri intrecciati, corpo sottile e vivace, sempre pronta per una corsa. Era raro trovarla seduta, ancora di più con l'intenzione di disegnare. Quando l'ho trovata una volta per strada ha tenuto a presentarmi a tutte le donne della sua famiglia, che sono venute una dopo l'altra fuori dalle case mobili, curiose di conoscere la tirocinante della scuola per i piccoli di Pilastro. Ogni volta che mi perdevo in giro in quel quartiere qualcuna di loro mi trovava, riportandomi al posto giusto.

- Qual è il tuo sogno, Dhael?
- Fare un viaggio. Sono qui a dipingere la mia valigia. Avrà molte cose! – diceva, con le braccia aperte e gli occhi luminosi.
- E dove vai?
- In Kosovo.
E c'era il mondo intero a brillare nei suoi occhi, c'era tutta la famiglia che non era finita a Pilastro, e per loro voleva prendere una valigia con molte cose, soprattutto con gli spaghetti.

- Spaghetti con un po' di olio d'oliva e aglio, è il mio cibo preferito – rispose Filippo. I suoi occhi di fiume continuavano a vagare per la stanza. Qualcuno fa un rumore, qualcuno grida, e Filippo gli corre incontro. Si tratta di Louise, la piccola biondina dagli occhi azzurri, che si rifiuta di lasciare il grembo di suo padre. Lo teneva stretto e gridava ogniqualvolta vedeva un insegnante. Filippo appare nuovamente accanto a me in silenzio, prende la mia mano e mi porta a Louise. Non aveva bisogno di spiegare, lo avevo già fatto con lui: il trucco dell'abbraccio. Quello più grande si mette accovacciato all'altezza di quelli più piccoli, rilassa le braccia e respira lentamente, creando un abbraccio calmo. Era l'unico modo per calmare il fiume torbido all'interno di Filippo, e lui avrà pensato che avrebbe funzionato anche con Louise. Ho accettato il suo invito silenzioso.

- Louise, guarda chi è venuta oggi! – ha detto il piccolino. Lei lascia il padre e viene ad abbracciarmi, con grande forza, rimanendo in grembo per lungo.
- Inês, ho già detto a mio babbo che stasera dobbiamo andare al ballo! Voglio un vestitino blu come i miei occhi, con una gonna che ruota tanto, e anche tu ti devi fare bella!

Il padre mi conosceva da poco e fissava il pavimento, un po' imbarazzato dalla perenne fantasia di Louise, la dolce fanciulla che raramente atterrava sulla stessa terra della maggior parte dei suoi compagni. Louise era una delle poche che giocava con Dhael, e scese dal grembo solo per accettare il suo invito e andare a giocare in giardino. Da lì, gridò:
- Inês, di che colore è il tuo vestito per andare al ballo oggi? – e aggiunge un sorriso infinito mentre scivola.

Solo Filippo è rimasto nella stanza. Il suo disegno non era mai perfetto, mai terminato. Non c'era spazio per tutto il fiume lì.

No, ma il punto,

semplicemente, è che pur essendo invisibile, uno porta in se tante lingue diverse. E quindi questo nato morto rinasce appunto per farmi parlare nella lingua che mi va (cioè, in italiano). Con errori (che si possono assolutamente comunicare, proverò sempre a fare le correzioni; sarà il mio corso d'italiano non-cost).

Lascio i primi post, che non c'entrano nulla, perché li ho pensati a Bologna nel 2009, probabilmente in uno dei momenti di febbre di quel corto viaggio. Li lascio come tributo al blabla nostalgico della città che non va via di me. E poi posto i "racconti a casa", quei viabigaresi scritti quest'anno, quasi sempre in cucina, nella poltrona che chi sa dov'è finita. E poi vedremmo.