Si
sente molto parlare dei gatti, il loro spirito indipendente, il loro
temperamento variabile, l'umanità che in loro proiettiamo. Il fatto che
sfuggono teneramente e fastidiosamente dal nostro controllo li rende degni di un'infinità
di storie.
Nel
mio baule ci sono molte storie ascoltate con i gatti come protagonisti. Gatti
che occupano le case, gatti che criticano fallimenti musicali, gatti che si
danno alla morte lontani dei padroni, anche quelli che scelgono la morte con la
morte dei padroni. I gatti che chiedono di aprire i rubinetti per bere l'acqua
fresca, i gatti che si aggirano tra le borse, libri e bagagliai di macchine,
gatti-amuleto, gatti randagi che portano gli amici al cantiere. C'è una
moltitudine di storie possibili, ma la storia che ora racconto è una delle più
antiche che conosco.
Retrocediamo,
a Porto, alla decade del 1940. L'area di Largo Mompilher all'epoca
probabilmente era tanto scura come lo è oggi, ma senza dubbio molto più
popolata. Nel 2008 c'erano ancora, solo nel quartiere di Cedofeita, 180 ilhas attive. Non so se si possa
immaginare quante furono sette decadi prima. Una ilha, per chi non ha familiarità col termine, è una sorta di
(parafrasando la nonna) "condominio chiuso". Un cancello (o anche
un'entrata all'aperto) dà accesso a una sorta di corridoio, con un susseguirsi
di porte (e, dietro a ciascuna, in media due stanze: cucina compresa) e alla
fine un bagno condiviso dai "condomini". È doveroso aggiungere che
dietro ogni porta viveva una famiglia, di solito composta da una madre, un
padre e diversi bambini.
In
una delle numerose isole vicine a Largo Mompilher viveva la famiglia da cui
proviene questa storia. Fra loro eccelleva, tra le altre, la capacità di
moltiplicarsi: un letto singolo si adattava a tre figlie di più o meno la
stessa età, in un altro un ragazzino più sfuggente e il piccolo rimaneva vicino
ai genitori.
Alcuni
principi di manutenzione di tale condizione di vita passavano da generazione a
generazione. Si distingua la cura, sopratutto nella cucina-salotto, ma anche
la capacità di inventare soluzioni col poco che si aveva in mano. Un po' di
farina, un secchio d'acqua, un pezzo di merluzzo e del prezzemolo farebbe una
festa di pataniscas.
L'olio in cui erano fritte saziava più velocemente, qualità necessaria in quei
giorni. I bimbi lavoravano, cosi come i genitori, il che non si traduceva
necessariamente nella quantità di escudos
sufficienti per mettere del cibo in tavola.
In
un giorno di disperazione, il gatto apparve. Passeggiava lungo il suo spazio
condominiale, fermandosi dove lo ricevessero gentilmente (e quale gatto
rifiuterebbe un piattino di lische?) rimanendo lì tutto il giorno. Si fermò nel
giorno sbagliato per essere coccolato dagli umani. Si rannicchiò nel grembo
della madre, che piangeva. Cadevano lacrime dopo sospiri dopo angosce e niente
la consolava. La madre accarezzava la pelliccia del gatto, evitando a tutti i
costi fargli del male. Non sarebbe stata la prima persona a far passare un
gatto per un coniglio, ma non ne era capace. Nemmeno i suoi figli meriterebbero
di non aver niente da mangiare. Rimase a piangere e il gatto uscì.
Tornò
poco dopo. In bocca, fermo e sospeso come se fosse suo figlio, portava un
nasello fresco e intatto appena strappato al pescivendolo. Lo lasciò sul
balcone della cucina e uscì.
Non
parlare male dei gatti, per favore.
Enrico ha fatto la revisione di questo, se non sbaglio! Grazie, caro :)
RispondiElimina